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pubblichiamo in anteprima per gentile concessione
della rivista
Alceo
Riosa OBBLIGATI ALLA
GUERRA
La sensazione generale è che l’11 settembre abbia
cambiato radicalmente il mondo, anche se non ci è dato intravedere in
quale direzione ed in quale misura. Ma accadde lo stesso durante la prima
guerra mondiale e più prossimamente a noi durante la crisi di Cuba
all’inizio degli anni sessanta. L’attesa delle svolte epocali fa parte
della psicologia individuale e collettiva della cultura occidentale, ne è
quasi aspetto fisiologico, che da un lato terrifica, ma paradossalmente
dall’altro da un senso all’esistenza contro la noia della vita quotidiana.
Siamo tutti figli di Faust e dello Streben dell’uomo moderno. In
realtà invece, quando lo stato d’animo del momento lascia prima o poi
spazio al più ponderato esame degli avvenimenti, ci si accorge che i
processi sono assai più complessi e le novità non lo sono mai del tutto.
Il passato è un macigno che ingombra sempre il sentiero del futuro.
Cionostante non si può certo negare l’effetto profondamente traumatico
della tragedia americana. Per i suoi contenuti spaventosi e per la forma
in cui ci è stato dato di percepirli, per lo scenario apocalittico in cui
ci sono stati presentati. Eravamo consapevoli da un pezzo che tra gli
occhi umani e la realtà la fanno da padroni i mass media e la logica
spettacolare che li governa. Ma eravamo stupidamente altrettanto convinti,
noi occidentali, di averne il governo esclusivo e di poterne disporre a
piacimento per imporre al resto del mondo la nostra immagine della
realtà.L’11 settembre ha offeso, oltre che il sacrosanto rispetto per la
vita umana, il nostro orgoglio compiaciuto di signori del mondo e di
traghettatori, in regime di monopolio, verso la modernità e la
mondializzazione. Quali che siano gli esiti della guerra in corso,
vincano gli americani o siano essi destinati ad impantanarsi nella morta
gora di un conflitto senza capo né coda, a parte le solite centinaia e
migliaia di civili vittime delle bombe intelligenti; sia l’una o l’altra
alternativa a prevalere, una certezza esiste sin d’ora: dal punto di vista
mediatico il vero vincitore è Bin Laden. Chi cioè ha scelto di giocare la
carta del tutto per tutto, assolutamente incurante delle leggi umane.
L’avversario occidentale ha dovuto incassare, costringendosi a rispondere
con una guerra al buio. Va riconosciuto a Bush il merito di non essersi
fatto travolgere dall’ondata emotiva della sua opinione pubblica e del suo
elettorato, di aver optato per una reazione attenta alla complessità degli
interessi in gioco, e in particolare a non approfondire il solco con le
popolazioni islamiche. Si è trattato di una risposta matura, dettata dal
principio di realtà, contrapposto al delirante principio di piacere da cui
è invece dominato il terrorismo islamico. Intanto però, sarà purtroppo lo
scenario catastrofico delle Twin Towers sventrate dai fanatici kamikaze a
dominare incontrastato nella nostra memoria e in quella delle giovani
generazioni. Affinché l’effetto devastante che ciò comporterà risulti il
meno distruttivo possibile, è necessario che ciascuno di noi, per la
salute nostra ma anche del mondo intero, sia disponibile non solo alla
catarsi altrui, ma anche alla propria. Cominciandosi a chiedere, per
quanto il quesito sembri raccapricciante, se l’11 settembre, oltre ai suoi
aspetti tragicamente nuovi, non celi un classico gioco delle parti, in cui
vittima e carnefice si sono scambiati semplicemente i ruoli. Non per
decretare una assoluzione generale o una condanna altrettanto universale.
L’una e l’altra, per il fatto medesimo di non distinguere più nemmeno i
gradi di responsabilità, piacerebbero soltanto alle “anime belle”, anche
quando disposte a mettere a ferro e fuoco intere città precludendosi al
dialogo. Contro il terrorismo la risposta adeguata non può che essere
la più ferma determinazione a reprimerlo, pure con le armi. Anche quando
si riconosca che l’avversario è non il colpevole tout court, ma certamente
più colpevole.
L’uso terroristico della propaganda ha ormai una
storia antica, che attraversa l’intero Novecento. Ha le sue radici nella
prima guerra mondiale (ma principalmente combattuta dall’“uomo bianco”). È
da allora che la propaganda, da salutare strumento di pedagogia e di
formazione delle coscienze, si traduce in un’arma bellica non meno
devastante delle altre, anche se a differenza di queste non mira ai corpi.
Altera però profondamente le menti ed uccide l’autonomia critica
dell’individuo. Poco oramai importa la verità dei suoi messaggi; ciò che
sta a cuore ai governi e agli stati maggiori è la sua efficacia, la sua
capacità di bourrer le crânes, quelli dei propri soldati e del proprio
fronte interno per rassicurarli, ma anche quelli degli avversari per
terrorizzarli e demolirne la volontà di resistenza. Gli effetti non sono
meno disastrosi delle ecatombi sanguinose: la propaganda bellica è
destinata ad alimentare angosce ed odi collettivi che peseranno ben oltre
la vicenda bellica, a costruire stereotipi dell’altro da noi duri a morire
ed ancora presenti o come carie dolorosamente scoperte (si pensi ai
Balcani) o nascoste sotto la fiera consapevolezza razionale del mondo
avanzato. La parola d’ordine della propaganda è divenu ta da allora
colpire nel segno; ma il segno, soprattutto negli stati totalitari, non è
stato più, se non la verità, la conformità al verosimile. L’obiettivo da
colpire sono state le masse, per renderle “prigioniere del sogno”, anche
quando esso fosse incubo, ma a suo modo numinoso. Dunque l’11
settembre non solca due età, almeno non al punto da cancellare le
continuità. Ma è pur vero che quel giorno ha impresso una brusca
accelerazione ad un processo esistente, ha esasperato a dismisura il
fenomeno, rendendo ora tutto spaventosamente meno controllabile.
Eppure quanto di più alieno alla nostra mentalità evoluta
dell’assenza di rispetto umano anche verso se stessi rivelata dai kamikaze
di Bin Laden, così follemente determinati alla carneficina fino al
sacrificio di sé pur di realizzarla. Può sembrare che una decisione del
genere sia solamente spiegabile con il fanatismo religioso e con una fede
che non assegna nessun valore alla vita individuale. Insomma nulla di più
estraneo alla nostra mentalità laica occidentale. Ma la faccenda sta
davvero così o, a pensarci bene, non avvertiamo alcune analogie piuttosto
significativa con la nostra storia e con le nostre memorie nazionali o di
classe? Abbiamo tutti coltivato e siamo stati coltivati alla prosografia
di eroi e martiri, che talvolta non si sono peritati di coinvolgere nel
sacrificio di sé anche la vita altrui, di amici e avversari. Ciò va detto
solo per precisare che non c’è motivo di scandalizzarsi, ma semmai di
chiedersene preoccupati le ragioni, se nonostante la nostra corazza
razionale sarà arduo per molti di noi tenere a bada un qualche senso di
nostalgia. Quello medesimo che in tanti si manifestò sempre durante il
primo conflitto mondiale. Quella vera e propria “guerra di materiali”
impose la sua logica imperscrutabile all’oscuro combattente interrato
nelle trincee, confuso con il fango dei lunghi autunni e dei micidiali
inverni, riducendolo a infinitesimale rotella del gigantesco ingranaggio
di distruzione, a grumo di incubi e terrori quotidiani esaltati dal
sentimento della propria totale impotenza. L’ancora di salvezza contro la
follia fu per molti la fuga dalla modernità bellica in un immaginario
fatto di cavalieri medievali, che con la sola forza della propria spada
decidevano della propria sorte e di quella altrui. In questa sorta di
evasione essi furono aiutati dai primi aerei precariamente traballanti
nell’aria, che si affacciavano sull’orizzonte della battaglia a mo’ di
meccanici cavalli volanti, mentre i baroni rossi alla loro guida, nascosti
dalla carlinga, ridavano vita al mito dell’eroe antico. Ed anche a questo
proposito la nostalgia non cessò affatto con la fine del conflitto, ma
contribuì a dar vita al mito dell’aereo, la quintessenza insomma della
modernità, contro l’anonimia della società di massa. Ma restano
inscusabili l’orribile bilancio di migliaia di morti innocenti, la trama
malvagia che ha fatto il vuoto dove prima svettavano orgogliose le due
torri, le intenzioni che stavano dietro questi simboli della civiltà
americana: demolire il morale del popolo statunitense, gettarlo nel panico
e creare il caos nel fronte nemico. Ed ancor più repellente l’obiettivo
principale: offrire le immagini del disastro alle folle musulmane per
stringerle assieme in un mostruoso patto di sangue contro l’Occidente.
Pesa ammetterlo, ma anche in questo caso Bin Laden non ha faticato a
rintracciare i suoi maestri, le edizioni originali di analoghi scenari
risalenti questa volta al secondo conflitto mondiale. Chi allora era già
nato, ma ancora in quella età dell’infanzia in cui le impressioni si
fissano indelebilmente nella mente, non può non essere riandato con la
memoria alle foto dei micidiali bombardamenti sulle popolazioni civili
inermi di Londra e di Dresda. Quelle foto non furono scattate per semplice
documentazione storica a futura memoria, ma per venire capillarmente
diffuse tra il pubblico di casa propria per compattarne il morale e
alimentarne la fiducia ella vittoria finale. Certo l’obiezione pesa
come un macigno e pare rendere incomparabili le due situazioni: ciò che è
consentito in una guerra dichiarata, diventa criminale in sua assenza.
Differenza inoppugnabile se anche a questo proposito non fossimo costretti
a rammentarci che dalla guerra di Corea, a quella del Vietnam e del Golfo,
la preventiva dichiarazione di guerra è diventata un’araba fenicia. Ecco
allora, detto per inciso, che lo spaventoso clamore mediatico del gesto
terroristico di Bin Laden ci ammaestra ad una ulteriore verità: negli
ultimi decenni le lacerazioni nel tessuto delle relazioni internazionali
procurate dall’Occidente medesimo sono state troppo profonde per sperare
di potercene servire ancora in futuro, magari rammendandolo qua e là. Il
futuro ordine mondiale dopo Bin Laden dovrà fondarsi su regole nuove, che
già sin d’ora andrebbero individuate per dare un senso più pieno al
conflitto in corso: motivarlo come guerra al terrorismo, non basta. Per il
momento è solo guerra contro questo terrorismo. Lo scopo ultimo di questa
guerra deve consistere nel rendere non solo impossibile ma soprattutto
inutile ogni forma di terrorismo in futuro.
• Comunque resta un
fatto inoppugnabile che se il confine tra lecito ed illecito era stato già
in passato reso incerto, ora l’11 settembre l’ha completamente cancellato.
Riconoscere che l’Occidente ha fatto la parte dell’apprendista stregone
non giustifica il risultato mostruoso e metterlo tutto a carico nostro.
Bin Laden ha dissolto ogni concetto del limite, dissolvendo il precario
ordine internazionale antece dente l’11 settembre nel caos, dove domina
sovrano l’atto gratuito e dove ciò che conta è solo la sua brutale
risonanza. Se il führer del terrorismo islamico non è il male assoluto
contrapposto al bene assoluto incarnato dagli occidentali, è però
l’incarnazione della profezia dello Zeno di Svevo. Bin Laden è quell’uomo
come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, che si
arrampicherà in compagnia del suo ordigno di distruzione per porlo nel
punto ove il suo effetto sia il massimo. Impedire anche con le armi
che ciò avvenga è una necessità vitale, un atto di legittima difesa per
l’Occidente e per il mondo intero. Ma per risultare comprensibile anche
agli occhi delle folle islamiche, il conflitto deve durare solo quel tanto
che lo giustifichi come difesa. E non deve costituire l’unica presenza
dell’Occidente in quelle tormentate regioni. Guai se la guerra dovesse
coprire l’intero orizzonte dei rapporti tra Occidente e Islam. Allora sì
che saremmo giunti al limite oltre il quale la terra ritornata alla
forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.
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